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martedì 15 marzo 2011

Bizarra

la saga, la maratona, la fine...l'inizio

di Rafael Spregeburd
traduzione Manuela Cherubini
direzione artistica Manuela Cherubini, Giorgio Barberio Corsetti, Giorgina Pilozzi
squadra regia Manuela Cherubini, Giorgina Pilozzi, Fabio Cherstich, Flaminia Caroli
una produzione Angelo Mai, Fattore K, PsicopompoTeatro
con il sostegno di Semintesta – Spazio Zip, Rialtosantambrogio, produzionepovera, I Generali
direttrice di produzione Donatella Franciosi
produttore esecutivo Francesca Mancini

con Pepita Cianfoni, Luisa Merloni, Raffaella Pontarelli, Patrizia Romeo, David Power, Alessandro Riceci, Mariano Arenella, Valentna Bruscoli, Raimondo Brandi , Fabio Pappacena, Giorgio Sorrentino, Gianmarco di Lecce, Laura Riccioli, Serenella Tarsitano, Pamela Sabatini, Marco Quaglia, Andrea Capaldi, Andrea Alessandro La Bozzetta, Paolo Civati, Mary Di Tommaso, Andrea Martorano, Paola Michelini, Simona Senzacqua, Ferruccio Ferrante, Orsetta Paolillo, Stefania Aluzzi, Gaspare Balsamo, Sylvia De Fanti, Clara Galante, Alessandra Di Lernia, Matìas Endrek, Giorgio Carugno, Laura Sampedro.
Ospiti: Marco De Notariis, Andrea Contaldo, Autilia Ranieri, Francesca Ciocchetti, Cristian Giammarini, Cristina Spina, Antonio Puccia, Fausto Paravidino.

Sono passati due mesi, solo due mesi dalla fine di una delle imprese più interessanti e difficili che il teatro contemporaneo della capitale, ma direi del paese, si è approssimato a condurre con forza e continuità all'interno degli spazi dell'Angelo Mai. Un periodo di più di tre mesi con più di trenta attori che dalla metà dello scorso Ottobre hanno accolto di serata in serata un pubblico deciso a ritrovarsi sulla soglia di un mondo: la malinconica Argentina di Spregelburd. Ma che soprattutto nei ritmi e nelle modalità più consone ai tempi odierni è rimasto chiuso e concentrato in quegli spazi, nelle quinte e nel palcoscenico del centro sociale, riempitosi durante lo svolgimento della saga, l'accadimento bizzarro-simbolico di vite incrociatesi sul sentiero dello sfacelo, del decadimento moralistico, talvolta necessario, di una nazione dai suoi cittadini più radicati ed estraniati. Per questo noi delle Grandi Dionisie non potevamo non aprire il nuovo anno della rivista online (e ci scusiamo per l'eccessivo ritardo) senza dedicare il primo articolo a Bizarra. Cos'altro poter dire della prima teatronovela giunta sino a noi? Di Bizarra è stato detto ormai tutto e di più, un fruscìo di commenti di vario genere: e chi ne ha diffidato dall'inizio ha perseguito o si è ricreduto; chi non è entrato bene nel gioco della vicenda si è lasciato forse soggiogare dall'inceppo di qualche replica forse andata a male. O sarà anche che Spregelburd, cari lettori, può non piacere com'è giusto che sia. Senz'ombra di dubbio dietro molti commenti sfiduciati degli addetti ai lavori si è nascosta l'invidia di non poter rientrare a far parte di questo favoloso tour de force, consapevoli sin da sempre del successo che lo spettacolo avrebbe riscontrato. Crediamo che Bizarra sul piano visivo costituisca l'ennesimo esempio di quella paura inconsapevole (e laddove fosse consapevole ci sarebbe da preoccuparsi sui limiti del cinismo narcisistico di certi individui) circa il potere del teatro, l'atto immediato del presente, in grado di poter addirittura creare una comunità avanzata. Ma non era quello che sognava Pasolini nel suo Manifesto? Di conseguenza il rischio nella cerchia del pubblico “esperto”, quello che qualcuno può temere, è sentire lo spodestamento del ruolo di “alti intenditori di classe”. Perché oggi chiudersi nei teatri off, nel background alternativo alla stagnazione della scena teatrale “fa essere fichi” e quando qualche nuovo arrivato abbraccia nuove realtà, entra in ballo “la diffidenza da confronto”. In molti siamo passati dallo stesso processo: dalle poltrone rosse dei grandi edifici dove ci prestavamo a vedere la diva cinematografica nell'allestimento teatrale di un Tennessee Williams, alle cantine ultra accessoriate e super autogestite dei giorni nostri. E come se non bastasse, ci sorprende l'insoddisfazione generale circa gli elementi nuovi della scena contemporanea che sperimentano più luce, più suono e più video, escludendo il corpo dell'attore. E allora perché non sciogliersi? Perché non guardare più attentamente Bizarra? Commuove e ci rende fortunati l’aver assistito all'inizio e alla fine di questa sinergia di gruppo, una sinergia di cui son rimaste poche tracce. Cosa sarà successo dal 22 Gennaio in poi? Dove si è dispersa l’energia della maratona del nuovo anno con le dieci puntate consecutive? Tanti spettatori avranno qualcosa senz'altro in più da raccontare e chissà se gli attori della folle impresa abbiano continuato a sottrarsi alla solita routine di provini da cui l'impegno dei tre mesi di prove li ha tenuti lontani. Una volta a settimana un pubblico clamorosamente pronto per vederli formava la fila che si vedeva all'ingresso della sala principale, sempre più ansiosamente entusiasta di constatare le dinamiche prossime delle vicende, i misteri già tanto velati alla fine di ogni puntata precedente. Un rombo acclamato di urla accompagnava la sigla iniziale il cui video proiettato sul fondale del muro consisteva nello scorrimento dei personaggi. Quegli spettatori che tornavano aspettavano loro, solo loro: la dolce e innocente Velita (Pepita Cianfoni) prossima a sottoporsi a quale straziante ingiustizia, la sua gemella Candela Auster (Luisa Merloni) sempre più incurante di se stessa tanto da non riuscire a capire quale fosse la via per passare dal baratro dell'insoddisfazione, ricchi in una immensa e grande villa o afflitti in una piccola periferia povera e malfamata di Buenos Aires. Sarebbero andate meglio le cose tra Alvaro (il perfido e arzillo Giorgio Sorrentino) e la sua finta Mona (Andrea Capaldi in azione trans) se Velita avesse avuto il tempo di rendersi conto che il frutto del suo secondo stupro sarebbe confluito come seme in grembo, il seme già in parte del militante, scattante e pessimista Sebastian (Paolo Civati)? Chi può mai dirlo.

Tutto sin dall’inizio sembrava un quadro quasi completamente chiaro e ben fissato però è cresciuto sempre di più rischiando forse di far deragliare qualche volta lo spettatore. Ma stando a quanto ricorda chi scrive, tutto quello che deraglia in Bizarra, son solo i corpi di due giovani teppisti (Fabio Pappacena e Mariano Arenella) che a furia di racimolare qualche soldo in tasca e scroccando gelati, troveranno pane per i loro denti incrociando qualche binario in più. Sembrava solo ieri quel 19 ottobre del 2010, e qualcosa stava festosamente aumentando la curiosità delle persone accalcatesi all'ingresso dell'Angelo Mai. Era possibile fare teatro così? - quelle scene così minimali, gli oggetti di scena portati via dagli attori stessi, e poi proprio gli attori in una dimensione di tempo e ritmo quasi sadica. Hanno interpretato proprio il sadismo cui i personaggi di Buenos Aires erano legati com'è sadico l'intreccio pessimista di Spregelburd che ci fa ridere di loro. Ma grazie agli interpreti di questa performance oserei dire che non si ride più di loro, ma con loro. E per cosa? Un quadro che perde di razionalità perché forse non c'è più alcuna risorsa migliore della pazzia e dell'irrazionalità per gridare, se non risanare, la rabbia di uno sfacelo sempre più culminante. Son finite per diventarne vittime loro stesse e di puntata in puntata ecco una metamorfosi esasperata per i nostri crudeli, cinici, benevoli e bizzarri eroi. Tutto avremmo potuto dire tranne di ritrovarci davanti a un ribaltamento contestuale come quello lasciato all’immancabile Felicia Auster (Patrizia Romeo) e suo figlio Dubian (Alessandro Riceci) nella nona puntata: la cinica e adorabile matrona d’alta classe sull’orlo di una crisi di nervi col trucco colato sul viso inorridisce al pensiero che il figlio possa redimersi dalla sua omosessualità scoprendo in sé una vena etero sempre perpetrata. Paradossale al giorno d’oggi se di norma accade ancora l’opposto e se questa parte del testo prevede la presenza dei due rispettivi interpreti che regalano uno degli ultimi slanci di euforia “bizarra”. È il paradosso probabilmente la chiave d’interpretazione di questi ultimi squarci della saga, dalla morte alla resurrezione (il caso della donna che visse due volte riproposto da Spregelburd ricade sulla maligna, ora angelica, ora defunta, ora bravissima Simona Senzacqua alias Wilma Bebuy); dal confusionale ritrovamento famigliare di Encarnacion Auster (Raffaella Pontarelli), al deturpamento di amori ora nati e mai cominciati tra Velita, Sebastian, Candela e lo strampalato Tramutola (Marco Quaglia) che lascia una povera cieca quanto profetica (Pamela Sabatini) sola nella sua amara condizione. Basta vedere sua padre sempre a un passo dall’entusiasmo (Ferruccio Ferrante). E cosa dire della sorellastra Alba improvvisamente diventata buona (Laura Riccioli), e della disonestà sessualmente ripagata dell’imbrogliona Encina Moròn (Stefania Aluzzi)? E se il demonio (Matìas Endrek) poi indaga prendendo in prestito le forme più innocenti e conduttrici della penultima puntata (Orsetta Paolillo), è quasi d’obbligo l’intervento senza permesso di un certo tizio, Dio, che porta la buffa e grottesca immagine di un bravissimo Antonio Puccia, con calzoni, canotta, pantaloncini e scarpe sportive, in estremo idillio fumogeno. Quello che ne scaturisce? Un’apocalisse per l’Argentina e il mondo senza precedenti che Velita dovrà vivere come pegno per vivere almeno un momento d’amore, un’illusione accanto al suo amato Sebastian, il suo matrimonio finto cui rivedremo fisicamente mataforicamente partecipi tutti gli altri interpreti della saga: Magnifica Panda (la spia di Sylvia De Fanti), il combattivo Huguito (Rolando Brandi), la sua compagna Trisha (Serenella Tarsitano), la vedova ma nuovamente sposa ora di Dubian, Yeni (Paola Michelini), i padri veri delle due gemelle, Mr Pierri Macao e il commissario Mayers (rispettivamente Andrea La Bozzetta e il simpatico Gaspare Balsamo), e ovviamente l’ormai soddisfatta cameriera Amelia (la fenomenale Mary Di Tommaso) di ritorno dal suo viaggio di disintossicazione.

E tanti altri ancora per questo viaggio conclusosi, per quanto mi riguarda, in un lunedì inaspettato di fine dicembre sotto la pioggia che accompagnava il debutto, appunto, dell’ultima puntata: sapete, una di quelle atmosfere dove si dice che solo in pochi si è predestinati a vivere per vedere fin dove può arrivare un ciclo di attese emozioni senza sfiducia. Forse quelle emozioni che solo il teatro può dare, specie quando si spera e si vuole essere sopraffatti da una realtà che non ci appartiene tutti i giorni. Si tratti della fede degli attori per la storia, la scena, i loro personaggi, o di quel palco dove non ci si sottrae alla verità, rimane l’amore per un appuntamento dove però si può capire dall’inizio alla fine che vale la pena vivere e credere in questa vita, anche se così breve, malinconica e assurda, finché ciascuno anche solo per un momento trovi e provi a se stesso a una parte del mondo il proprio senso. Così anche il prossimo capirà cosa vuol dire…Un anno d’amore.

La Redazione ringrazia immensamente oltre il cast intero, l’Ufficio Stampa e in particolar modo Francesca Donnini per disponibilità mostrataci.

Mauro Sole!

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