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giovedì 21 ottobre 2010

4 4.48 PSYCHOSIS

di Sarah Kane

con Elena Arvigo

musiche Susanna Stivali

regia Valentina Calvari

48 Psychosis non è l’ultima lettera di un suicida. Non è follia se, come dice Alda Merini, “la follia è la mancanza di qualcuno d’importante”.4.48 Psychosis è mancanza,ricerca, desiderio e rifiuto; quello che succede alla mente di u4na persona quando crollano le barriere che dividono la realtà dall’immaginazione? l’affermazione della consapevolezza dell’effimero di ogni intento

(Valentina Calvani) http://www.teatroargotstudio.com

Roma, al Teatro Argot studio sino al 31 Ottobre

Capita spesso in teatro che lo spettatore, il più delle volte inconsciamente, agiti interiormente una disputa tra il non credere o il lasciarsi abbracciare da quella voluminosità di parole che diventa la partitura fisica dell'attore. Ebbene, ci pare più che opportuno sostenere che la difficoltà di questo testo, l'ultimo di Sarah Kane, scritto poco prima che l'autrice si suicidasse, va ben oltre la comprensione della depressione che agita il personaggio anonimo, e supera ogni dubbio quando alle parole si sostituisce il pensiero di chi sulla scena fa, di chi sulla scena è. Mi riferisco alla magnetica presenza di Elena Arvigo, in questi giorni, appunto con 4.48 Psychosis al Teatro Argot fino al 31 Ottobre. La giovane attrice, appena reduce da un'esperienza col celebre regista Alvis Harmenis, in “Le signorine di Wilko”, conclusasi con una tournèe europea, ha messo il suo indiscutibile talento a disposizione dei tragici turbamenti delle parole della Kane, in un'interpretazione unica lungi da una facile pomposa drammaturgia attoriale. Il suo sguardo perso e vano, contemporaneamente dedito alla ricerca della comunicazione stretta col pubblico marca un crescendo individuale del personaggio, proiettando nello spettatore un senso di fragilità che scorge dalla sue posizioni, che accennano a una sorta di guscio per proteggersi dalla verità del lercio che la circonda. Tuttavia sempre con un equilibrio, una calma e delle pause pari a quei momenti riscontrabili durante le prime sedute di una terapia dallo psicologo. E tutto ciò è positivamente stupefacente, perché non più il testo, ma il corpo di un attore riesce a comunicare un esigenza, un disgusto per la vergogna altrui, per il rifiuto e per l'incomprensione: un atteggiamento impensabile per una società che non concede un attimo per abbandonarsi alle debolezze più disperate che sovrastano nell'ombra del cuore e, come suggerisce la Kane, ci vuole sempre pronti però a dover sopportare i pesi più dolorosi. Basta vedere l'Arvigo la quale, man mano che acquisisce sempre di più questa linearità tra pazzia e lucidità, non si limiterà solo a ironizzare sui risvolti dei reperti visti con cinica risata da parte dei medici curanti, ma saprà anche calibrare una rabbia a tratti con parole sottovoce ripetute di continuo sino allo sfogo su di un muro, quel bisogno di amore tanto atteso. Lei stessa inizierà questo viaggio dicendo “Cosa ho da offrire ai miei amici?” mentre gira e rigira delle carte da poker di una misura più grande della norma . Che sia il primo impatto davanti a un'autocommiserazione che passa da una sedia all'altra? Il viaggio imperscrutabile cui ci fa partecipe l'attrice passa per una stanza dove il tempo e lo spazio si diramano attraverso un enorme massa di piccole pagine attaccate alle pareti dell'Argot Studio, una cornice che ricalca la sofferenza quasi indecifrabile di questo testo con della terra sparsa assieme a dei pezzi di vetro, delle palline bianche girate dalla manovella di alcuni bussolotti come per i numeri della fortuna. E non è un caso che in questa triste atmosfera ci capiterà di ascoltare come sottofondo musicale la frase “I wanna be loved”. Infatti la speranza di un amore e della non-rinuncia si realizza come su di un volo tendente, quale compie l'Arvigo salendo sulla sedia ora al centro con la luce affievolitasi. Per dire cosa poi? Che il testamento di Sarah Kane è stato compiuto. Da non perdere assolutamente.

Buona scena! Mauro Sole

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