MANIFESTAZIONE
SHORT THEATRE
MEMORIA DELLO STUDIO PER LE SERVE
da Le Serve di Jean Genet
con Maria Luisa Abate e Paolo Oricco
regia Marco Isidori
"Studio per le Serve, una danza di guerra" titolava oltre vent'anni fa, il suo spettacolo d'esordio la Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, e "Memoria dello Studio per le Serve" recita il titolo di quest'edizione rinnovata di quel che per noi non fu soltanto una prova di teatro ma un'azione assai più vicina allo scatenamento di forze telluriche, le quali, compresse e costrette nei canoni della recitazione occidentale, furono educate in un'evidenza scenica che costituì la pietra angolare di quell'edificio teatrale poi costruito dai Marcido. Riproponiamo la rappresentazione di questo "Studio" come momento di riflessione storica e soprattutto come "memento", che riflettendo un modesto raggio della luce "bastarda" propria della genesi del fenomeno teatrale, sappia perciò indicare per questo stesso vecchio prezioso fenomeno, un futuro di necessità. ( http://www.shorttheatre.org/compagnie/Marcidorjs-Mimosa.html)
Continua la rassegna Short Theatre 2010 con uno spettacolo del gruppo di Torino, i Marcido Marcidorjs. Stando alla folla molto numerosa prossima alle porte della sala d'ingresso, immersa nel frequente cicaleccio, pare e si spera lo spettacolo prometta bene. E in effetti c'è una bella sorpresa ad attendere il pubblico di Memorie dello studio per le serve: l'inizio della fine, non nel senso catastrofico dell'espressione, bensì ripetitivo di un azione. L'attrice Maria Luisa Abate si presenta nel suo immancabile trucco in viso di colorito bianco che accentua l'intensità interpretativa. Stesso procedimento per Paolo Orrico che condivide con la Abate una pedana di quasi due metri. È da precisare che questo lavoro è giusto il leggero ritocco del primo allestimento col quale i Marcidos debuttarono nel 1984 assicurandosi una pagina nella storia dell'avanguardia teatrale italiana: quindi non dovrà sembrare strano se, pur trattandosi di sperimentazione, lo spettacolo è immerso in un senso continuo di elementi che possono risultare "ripetitivi". La ri-petizione elemento che, stando a quanto ci ha insegnato Peter Brook, rischia di definire la noia, se non la morte del teatro: lo spettacolo poggia su tutta una base, quella della posizione che per la maggior parte del tempo assume l'attrice protagonista, passando nell'interpretazione da Solange a Claire, senza cambiamento di registro. Si divide tra un ritmo in cui la parola è scardinata dall'espressione, un po' tipica di Carmelo Bene, e una sottolineatura testuale che non differisce sinceramente da quella che potrebbe essere la pratica recitativa di un regista di prosa (si prenda Castri), il tutto attraverso un crescendo del viso dell'Abate che si modifica a seconda del senso della parola, specie nei momenti in cui si rievoca la padrona delle serve. Come tale persiste l'azione e rischia appunto di provocare un ascolto superficiale, se non che Paolo Orrico nel suo sguardo perso poco a poco salva l'attenzione con qualche immagine, come quella finale del costume della Abate: l'attore nel suo buffo e inquietante costumino da serva, tira fuori dai pantaloni della prima attrice, sempre preoccupata dal testo, una serie di collane di perle che si agganciano alla pedana. L'attrice e la scenografia si fondano: una cornice al cui tocco finale è riservato una coroncina da santificazione formata da mollette per il bucato sulla testa della Abate. È la ciliegina sulla torta, un meccanismo che poteva “osare” di più e che a tratti è fuoriuscito dal medesimo schermo: si veda la servetta (Orrico) che vocalmente intonerà per un paio d'attimi il testo letteralmente affidato alla Abate, sino a compenetrare nel personaggio di Claire, intorpidito da una gamma vocale interpretativa da beffa erotica. Sulla dissolvenza della luce a fine spettacolo, ha simpaticamente centrato in pieno il sospiro di sollievo di una giovane spettatrice che ha tolto la risata a un un terzo del pubblico in sala.
Mauro Sole
5settembre 2010
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