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venerdì 2 luglio 2010

CIECHI

Dal romanzo “Cecità” del premio Nobel Josè Saramago

Adattamento drammaturgico e Regia

Tenerezza Fattore

Teatro Piccolo Eliseo Patroni Griffi Roma - Fino al 4 luglio

Oggi, in una città qualunque, si sviluppa un'epidemia di cecità, che sostituisce alla vista un “candore luminoso”; il contagio si diffonde rapidamente colpendo tutta la nazione. I primi malati vengono rinchiusi in un ex manicomio, tenuti sotto la minaccia delle armi. In questa situazione in cui i ciechi sono costretti a vivere nel più bieco abbrutimento, scoppia ogni tipo di violenza e sopraffazione, viene scardinata ogni ogni regola morale e possibilità di vita civile. Una donna, rimasta miracolosamente immune, si fa internare per restare vicina al marito. Il suo gesto di amore diventa la possibilità di restituire a tutti gli altri uomini una speranza collettiva. Proprio per la sua capacità di vedere, la donna dovrà assumersi la responsabilità della cecità altrui e inventare un itinerario di salvezza, recuperando le ragioni della solidarietà [fonte: www.cassiopeateatro.org]


"Eravamo già ciechi nel momento in cui lo siamo diventati". Attraverso queste parole si svela uno dei significati di “Cecità”, forse solo il più coscientemente afferrabile del romanzo dello scrittore portoghese, giacché tutta l’opera è un gigantesco percorso simbolico. A pronunciarle è “Una semplice cieca”, vittima di un male tanto comune che non è necessario identificarla con un nome e un cognome. Il Mal bianco, infatti, una sorta di patina lattea che impedisce di vedere e si diffonde per contagio è, per l’autore, un male che interessa tutto il genere umano e lo livella.

Su questa trama, densa di significati, riflessioni ed emozioni, gioca una partita vincente la drammaturga e regista Tenerezza Fattore, che ha scelto di sviscerare il testo per farne una drammaturgia che stimola incredibilmente l’immaginazione del lettore di “Cecità”, ma che si imbatte, poi, in innumerevoli interrogativi di resa scenica.

CIECHI è il risultato di inevitabili scelte di focus rispetto al sostanzioso romanzo. L’adattamento predilige la prima parte, ossia la permanenza dei contagiati nell’ex manicomio. La scenografia (di Michela Bevilacqua) funzionale e simbolica, che comprime i personaggi all’interno di fredde grate, stile carcerario risponde, allo stesso tempo, ai vari piani metaforici di cecità: quello strettamente fisica, ma anche quello del limite mentale, della paura, dei confini che si sceglie di varcare o di non infrangere; in questo labirinto fisico e allegorico si muovono ben trenta attori, perfettamente presi nella parte e ben coordinati dalla regia per tutta la durata dello spettacolo.

Attori, in continua “at-tensione”, vivi, attivi in una prova difficilissima, che è quella di interpretare, appunto, la cecità e di mantenerla credibile nell’arco di tutta la messa in scena, che pure è di durata notevole: i loro personaggi sono ciechi che, per di più, evolvono il loro stato e la loro emotività nel corso dello spettacolo, fino ai picchi intensissimi degli inserti onirici, dei traumi subìti e della subcoscienza.

All’interno dell’ex-manicomio, i contagiati sono costretti a vivere abbandonati a se stessi, rinchiusi drasticamente nel loro handicap e nelle loro fragilità. Emarginati per questioni di sicurezza dal resto della popolazione e con metodi che non lasciano spazio alla tolleranza, gli internati danno vita ad un microcosmo di meccanismi di sopravvivenza che pian piano conduce tutti all’abbrutimento, sempre più grave, sino a causare la scomparsa dei valori, di ogni inibizione necessaria al vivere; prevale la perdita di senso, individuale e collettiva, una inaudita violenza che, spinta ai limiti, mette in dubbio e in discussione quel briciolo di umanità. La socialità interna al manicomio permette, tuttavia, il recupero di alcuni significati: coloro che mantengono il buon senso più a lungo agiscono sotto l’intuizione del bene comune, per istinto di solidarietà, con la disposizione ad immedesimarsi nel malessere altrui. L’epidemia del Mal bianco dimostra a questa porzione di mondo che ogni male altrui è potenzialmente da con-dividere e quindi trasferibile in qualunque momento. All’interno della “cieca” prigione continuano ad arrivare altri malati e istintivamente non c’è perdono per questi che, quand’erano fuori, non hanno compreso tutto ciò. Sarà proprio l’unica donna vedente (una apprezzabile Valeria de Angelis) ad aver il compito di poter/dovere condurre il gruppo ad una salvezza e, soprattutto, sarà proprio lei a porsi interrogativi, forse irrisolti e irrisolvibili, sulla vita che lei – da sola – ora ha la fortuna/sfortuna di vedere. Interessante la chiusura della maggior parte dei quadri della seconda parte, con la sconcertante constatazione della Vedente: “Ci vedo ancora..”, pronunciata tra incredulità, stanchezza e disperazione. La Moglie del medico (Valeria De Angelis – Dario Biancone) è infatti il pallino bianco nel mezzo tao nero. A nulla serve esser bianca, in quel non-senso. Costretta ad assistere al progressivo annientamento di coloro che ama o che semplicemente sente suoi simili, non può, suo malgrado, fuggire alla sua responsabilità.

Se questa mirabile opera è una perla di Saramago, il merito di Tenerezza Fattore è stato quello di porre i giusti accenti tematici e renderli “visibili”. Con una azzecatissima divisione in quadri di brechtiana memoria, non v’è dubbio che la regista-drammaturga è riuscita a dar vita ad un e-vento: un qualcosa di stra-ordinario che esce dagli stilemi e dalle convenzioni del teatro cui siamo (ahimè) abituati. Di grande levatura attoriale i 30 interpreti, tutti completi nella resa fisica – curata da Luca Ventura e Valeria Baresi - e nelle evoluzioni emotive. I corpi compunti all’inizio della rappresentazione, diventano nervi tesi di terrore all’avvento del contagio, e poi ribelli, poi impotenti, poi sconvolti, privati, martoriati, dilaniati. Il presupposto di tale performance è uno studio fisico sicuramente intenso, approfondito perché il pubblico, guardando dalla finestra spudoratamente aperta su ciò che accade alle vittime del Mal bianco, non troverà un angolo di incongruenza e di inattività sulla scena: 30 attori PRESENTI, con l'impossibilità - finalmente - di individuarne qualcuno con maggiore risalto; tuttavia, una lode la merita la giovanissima attrice Giuseppina Loschiavo (la ragazzina), allieva della scuola di teatro Cassiopea - diretta dalla stessa Fattore - la quale con la sua interpretazione è capace di ricordare con il suo corpo e le intenzioni che essa esprime una Kattrin (figlia muta di Madre Coraggio) al massimo della sua dirompente forza espressiva. Innovativi ed efficaci soprattutto alcuni espedienti utilizzati dalla Fattore per la resa dei momenti onirici e per la scena dell’incendio che costringerà gli internati alla fuga. Il finale, tronco rispetto al testo originale, ugualmente culmina in un punto di catarsi emotiva, per i personaggi e per il pubblico che si trova all’apice del suo coinvolgimento. La platea non sia intimidita dalle quasi 3 ore di permanenza in sala, giacché anche la durata è funzionale a ciò che si vede e si prova. Non si avrà voglia di abbandonare i ciechi al loro esito, si vorrà continuare a seguirli e a partecipare al coinvolgimento che dal palco arriva direttamente a ciascuno degli spettatori in sala. L’interazione tra attori e pubblico potrà anche essere letterale, ma mai invasiva e mai invertendo di posto attori e spettatori.

E allora ben vengano e siano di buon auspicio per il teatro italiano questi vividi e proficui segni di un teatro che ancora (e questa volta, ne abbiamo “visto” le prove) ESISTE!

La visione dello spettacolo è consigliata ad un pubblico adulto.

Buona Scena! Laura Branchini-Carlo Dilonardo

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