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giovedì 6 maggio 2010

LE CINQUE ROSE DI JENNIFER
di Annibale Ruccello

con Leandro Amato, Fabio Pasquini
fino al 9 maggio al Teatro della Cometa - Roma

Il testo, portato in scena dallo stesso autore nel 1980, nel corso del tempo e delle diverse edizioni ha acquisito uno spessore stilistico che gli conferisce il valore di un piccolo classico del teatro contemporaneo. La pièce, ambientata in un quartiere della periferia napoletana, racconta, con ritmo incalzante e grande suspense, il mondo dei travestiti e il dramma della solitudine, attraverso la storia di due di loro. In un’atmosfera da thriller, da vero e proprio giallo psicologico, si muovono Jennifer e Anna, due travestiti di matrice genettiana, povere anime perdute, confinate in un ghetto nel quale pudore e dignità, nell’accezione “borghese”, non esistono più, dove per un po’ di affetto si è disposti a tutto. Lo squallore e frustrazione che pervade la loro vita dona alla pièce una straziante poetica nella quale il tragico sfiora il grottesco. I pensieri ossessivi e maniacali di Jennifer scorrono sulla scena mentre recita il suo ultimo delirio d’amore per Franco, un uomo che probabilmente non esiste. Il racconto assume quindi i contorni di un lucido e lacerante delirio nel corso del quale una solitudine sempre più degradata porta alla deflagrazione di ogni codice comunicativo, in un estremo tentativo di ritrovare una propria identità.
(Fonte http://www.teatrodellacometa.it/)

Il testo di Annibale Ruccello, in questi giorni in scena al Teatro della Cometa, è un amaro ritratto della vita che si divide tra analisi introspettive dei personaggi e ammirabili colpi di scena, il tutto nell’arco di un’ora e un quarto: il tempo a noi concesso per vedere all’opera Jennifer (una prova della straordinaria bravura di Aleandro Amato), il transessuale protagonista dell’opera che dovrà fare i conti con se stesso. Le povere e pericolose strade periferiche di Napoli in cui si svolge l’azione, più che alle descrizioni cui fanno cenno la nostra tenera eroina e la sua radio, sono lasciate all’immaginazione dello spettatore che guarderà la dura realtà del personaggio attraverso l’interno del suo appartamento: probabilmente un modesto e piccolo appartamento imbevuto di sogni e atteggiamenti da diva, ma quello di Jennifer profuma del suo stesso desiderio d’amore con petali di rose rosse sparsi per tutto il palcoscenico, intorno all’immenso specchio in fondo alla scena e, ovviamente, cinque immancabili esemplari del fiore in un vaso posto in proscenio. Limitarsi a considerare il testo una rappresentazione problematica dello spaccato marginale cui sono abituati i transessuali di periferia sarebbe un errore: la storia di Jennifer non è diversa da altre. Perché ciò cui si assiste è l’esasperazione di fronte a una paura e una tristezza comune a tutti: la solitudine. Ma prim’ancora che il protagonista possa ammetterla e riconoscerla del tutto a se stesso, si culla nella certezza che da un momento all’altro piomberà a casa sua l’uomo che gli ha rubato il cuore, Franco. Per rendere meno ansiosa l’attesa e sfuggire alle insopportabili chiamate dei gentiluomini che hanno telefonato al trans sbagliato, la nostra Jennifer si dimena tra le sue piume e paiettes a ritmo di alcuni dei più celebri brani delle donne della canzone italiana: “E se domani”, “La Bambola” “Sei grande, grande” e così via, insomma tutte quelle canzoni celebranti lo spirito femminile talvolta felice, talvolta in conflitto con l'amore verso il proprio uomo. Ma dietro questo desiderio d'amore si nasconde qualcosa di più buio, di più misterioso nell'animo di Jennifer. Chi ci assicura che le immagini del suo apparir più femmina innamorata non siano delle sue stesse proiezioni che mascherano questo mistero, così come l'improvvisa entrata di Anna (un pungente Fabio Pasquini), la misteriosa inquilina dello stesso palazzo, che sembra esser venuta fuori da un grottesco ritratto alla famiglia Adams? Qui il divario fra i due personaggi che balza inequivocabilmente a qualsiasi spettatore, durante il loro tranquillo, teso e turbolento dialogo, potrebbe sostenere quest'ipotesi. Da un lato abbiamo la schiettezza e la semplice eleganza di Jennifer mischiata al linguaggio dei bassifondi, dall'altro la rigida, irrequieta e nevrotica fragilità di questo nuovo personaggio, Anna. L'immagine di Anna così fortemente caricata di questi tratti tipici, quasi si trattasse di una delle donne dipinte da Fellini, può ricondurci a una proiezione profondamente astratta di Jennifer, tanto per uccidere la solitudine il cui fardello comincia a essere sempre più pesante. E così ad un certo punto, arrivata la rassegnazione, questo duro momento fungerà da svelamento di un maniaco assassino che si aggira nel quartiere dei transessuali, ma prima di tutto nel teatro!
Buona scena!
Mauro Sole

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