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venerdì 14 maggio 2010

CHINESE COFFEE

di Ira Lewis
traduzione Letizia Russo
regia Pierpaolo Sepe

con Max Malatesta, Paolo Sassanelli

dall'11 al 16 maggio - Teatro India, Roma

Di una sconfitta non bisogna vergognarsi. Una sconfitta ha la stessa dignità di una vittoria. Non bisogna aver paura di perdere. E’ pericoloso invece cercare di vincere comunque. Rinunciare al motivo stesso per cui si gioca. Pur di vincere. Inseguire il consenso. Per poi affermare un sé stesso che non c’è più. Che è sparito nel compiacere pensieri altrui. Che è sparito nell’affanno della rincorsa. Smarrire il proprio sguardo. Il proprio modo di osservare e di sentire. E' molto peggio che perdere. Non possiamo vincere tutti. Alcuni di noi sono destinati a perdere. Va bene così. L’importante è giocare con lealtà e correttezza. Moralità è un sostantivo dal sapore sovversivo. La sola rivoluzione possibile. Questo spettacolo vuole raccontare di un tempo in cui gli uomini vendevano loro stessi, i propri sogni, i valori più sacri e inviolabili, in nome del mercato. Un tempo di oscurità e dolore. Ma anche di riscossa e speranza. Il nostro tempo. (Pierpaolo Sepe-fonte http://www.teatrodiroma.net/adon.pl?act=doc&doc=716)

Un progetto molto arduo ma pienamente centrato l’allestimento del regista Pierpaolo Sepe, quello di “Chinese Coffee”, ieri al suo debutto al Teatro India di Roma: una drammaturgia struggente dove Ira Lewis si distacca, ma non troppo, da quella linea malinconica teatrale fine '800-primo '900, per proiettarci in una New York che profuma di quel pessimismo poetico anni settanta. È un’osservazione, o piuttosto un’opzione deducibile da quel punto focalizzante attorno al quale ruotano i passaggi di azioni e parole dei due protagonisti: l’eroe sconfitto della società moderna. Tale immagine si dimezza appunto tra i due personaggi, lo scrittore squattrinato Harry Levine e il fotografo fallito e silenziosamente insoddisfatto Jake Manhei, rispettivamente ben interpretati da Max Malatesta e Paolo Sassanelli. Due personaggi testualmente e scenicamente diversi ma accomunati da quel cinico sentore che li spinge a tradire la loro stessa natura. Lo stesso chinese coffe, letteralmente caffè cinese, non è nient’altro che un piccolo pretesto per sfuggire alla tensione che incombe nel rapporto tra i due amici, un pretesto dal quale fuoriescono simpatici spunti per punzecchiarsi a vicenda sulle debolezze dell’altro, sui loro instancabili difetti. La lotta diventa viva ed estrema quando il nodo psicologico tra i due avrà al centro la disputa sul libro che Harry ha scritto rubando momenti della vita di Jack, momenti che paiono per lo strazio e la gratuita pornografia, dei proficui “imput economici” per Harry Sassanelli nei panni di Jake, tralasciando i pochi momenti dove anche i suoi nervi cedono, mantiene una calma interiore apparente, come una sfida più grossa nei confronti di Harry (un estroso Max Malatesta), che rispetto al primo è in preda a un irrefrenabile serie di attacchi schizofrenici, attimi dove l’attore dimostra abilmente di saper dirigere il suo personaggio e di padroneggiare lo spazio. Quest’ultimo elemento è un grande elemento di forza per Harry: si tratta di un grande tavolo rettangolare che in lunghezza occupa la maggior parte della scena e qualche volta ruota tentando di dare al pubblico un diverso profilo dei personaggi, non solo fisico ma simbolico. Che cosa volere di più? Vari appunti del libro, delle tazze da caffè, e un pupazzo di Topolino, il tutto su quel tavolo. È l’ennesima prova, nel dibattito ideologico-artistico cui è sottoposto il teatro, che non servono necessariamente più le grandi e fastose scenografie per fare dei buoni spettacoli, ma delle buone idee che sappiano sfruttare e porre al centro l’attore, il suo corpo.

Buona scena!

Mauro Sole

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