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lunedì 11 ottobre 2010

LEAR

da William Shakespeare
traduzione e adattamento Ken Ponzio, Antonio Latella
regia
Antonio Latella

con Giorgio Albertazzi, Silvia Ajelli, Evita Ciri, Giuseppe Lanino, Angelo Montella, Annibale Pavone, Rosario Tedesco, Elisabetta Valgoi

scene e costumi Fabio Sonnino, realizzazione costumi Cinzia Virguti, realizzazione scena Marco Di Napoli,assistente alla regia Alessandra Limentani, regista assistente Tommaso Tuzzoli

Un Testo/Testamento, assoluto nella sua terribile semplicità e nella sua semplice complessità. Una storia di padri, di figli e di figlie. Parto da una domanda: perché quest'uomo non aspetta il suo tempo ma decide di sfidare la sua fine dividendo il "tutto" in tre parti ed assistendo all'autodistruzione di un regno e di un'epoca? Alla parola regno sostituisco la parola teatro (Antonio Latella su http://www.teatrodiroma.net/adon.pl?act=doc&doc=1152)

al Teatro India sono al 17Ottobre

Quando la carnalità divampante del corpo dell'attore diventa il fulcro di una ricerca espressiva che finisce per rompere la quarta parete, c'è molto di più di un regno appartenente a una potente maestà: esiste il teatro e quella sua magia che sorvola su tutte quelle inutili e superficiali barriere intellettuali. Questa magia che finisce per commuovere lo spettatore è quella a cui si sta assistendo in questi giorni al Teatro India. A farcene partecipi è il regista Antonio Latella. Aveva incantato l'ultima volta il pubblico di Roma all'Argentina con quello strepitoso e pungente marchingegno de “Le Nuvole” di Aristofane, e ora questo maestro della regia contemporanea torna con la prima di un mirabile sperimento, Lear, la cui forza prorompente è incorporata dall'altro maestro, Giorgio Albertazzi, e in particolar modo da un agguerrito gruppo di attori: da anni la squadra, la famiglia del regista. La carnalità cui si accennava non è la messa a nudo del corpo stesso, ma del gioco del teatro, dei personaggi di questo nuovo Re Lear, un gioco che inizia letteralmente a tavolino da un ingresso caratterizzato da un simpatico ed elegante ingresso degli attori mischiatisi al pubblico entrato in sala con Albertazzi già al grande tavolo con due panche per la prova con la “nuova generazione”. Già, perché tale ridefinizione del testo shakespeariano, ad opera di Ken Ponzio, è anche un confronto, una sorta di conflitto generazionale tra il vecchio e il nuovo, tra padri e figli mai abbastanza appagati da quel bisogno di amore che riflette nel corso dello spettacolo anche l'amore di una vita, quello di Albertazzi per il teatro e per il passato. Riflette però anche l'esigenza registica di far scaturire di più, rispetto a un comune e rischioso allestimento dell'opera intatta, il significato di Re Lear: ce ne da un scherzoso assaggio Rosario Tedesco (Edmund), immerso nell'attore pronto, frizzante e incontenibile al momento del suo stesso personaggio che non si asterrà dal ricordarci qualche pietosa interpretazione di anni passati. Come del resto frizzante appare il Kent/Pavone dell'omonimo attore manifestando le sue radici siciliane da “bravu fidatu” per servizi da rendere alla maestà/maestranza. Albertazzi entra ed esce dall'antro di se stesso, di Lear e del Matto sfuggendo alla pazzia, materializzatasi attraverso dei cartelli mostrati a una velocità crescente, per raccontare il desiderio della vita, il richiamo di questo spettacolo, che entra in contrasto con il regno da dover spartire con le sue figlie, ma anzitutto con un testo difficile pari allo scambio dei rapporti interpersonali di una compagnia dove il maestro bacchettone la sa lunga. Ne emerge un'esplosione emotiva che vede anzitutto protagoniste le figlie/attrici: la frivola Evita Ciri (Regana), la seducente Silvia Ajelli (Goneril), e la fragile Elisabetta Volgoi (Cordelia), bravissime nel rendersi offese dall'attore anziano in una tensione dove si confondono la loro stessa identità e quella dei personaggi nelle battute lette e rilette. La testimonianza della libertà d'amore e del dolore per la solitudine raccontata dal re e dall'attore, passa ai giovani, come dimostra un intenso Giuseppe Lanino, prima Edgar, poi un tale Tom, il cui canto straziante configurerà una cornice dove a far da padroni saranno tutti gli altri attori, ciascuno, con una delle aste del tavolo smontato, come appigliati alla propria àncora di salvezza. La formula finale è data dalle parole di Adriano dette dal maestro spogliatosi di tutto: “Cerchiamo d'entrare nella morte ad occhi aperti», parole che ci lasciano colmi di gioia e, nello stesso tempo, di tristezza davanti a questo formidabile cast: un esperienza irripetibile capace di toccare le corde più intime dell'animo. Chi non l'ha ancora visto corra subito al Teatro India sino al 17 Ottobre.

Buona scena! Mauro Sole

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